Rifiuti&Sicurezza

Tecnologie di bonifica dei siti inquinati: la bioremediation

Bonificare un sito inquinato è, nella quasi totalità dei casi, un’operazione lunga, costosa e complessa. La bonifica dei siti inquinati è argomento multidisciplinare, che richiede conoscenza approfondita di concetti e nozioni di chimica, fisica, geologia e ingegneria. Il primo problema da affrontare (il più celermente possibile) quando si sospetta che un sito possa essere potenzialmente inquinato è capire quali siano (tutte) le sostanze inquinanti sversate nel terreno; questo perchè nel suolo sono presenti 3 fasi: la fase solida, la fase liquida e la fase gassosa, e ogni sostanza chimica si ripartisce in maniera diversa nelle suddette fasi e, quindi, permanendo in ognuna di esse con tempi diversi. Nel corso degli ultimi anni si è sempre più sviluppata una tecnologia di bonifica che sfrutta l’utilizzo dei microrganismi (autoctoni e non) per degradare le sostanze inquinanti nei suoli: tale tecnica è nota come “bioremediation” (o biorisanamento). Questa tecnica prevede 2 modalità operative differenti:

– modalità “ex-situ“, mediante la quale il terreno contaminato deve necessariamente essere scavato e trattato in altro luogo:

– modalità “in situ“, mediante trattamento in loco.

E’ stato accertato in diversi casi che la velocità di degradazione delle sostanze inquinanti da parte dei microrganismi dipende da molti fattori, come il pH, la temperatura, l’umidità, l’ossigeno disciolto (DO), la presenza di nutrienti (azoto, fosforo, ione solfato), conducibilità elettrica, potenziale redox, ecc.; molti di questi possono essere fattori limitanti per la crescita e lo sviluppo della classe microbica più adattabile alle condizioni ottimali di degradazione (i microrganismi, infatti, utilizzano le sostanze inquinanti per accrescere la loro biomassa e/o come fonte di energia); tutto ciò rende estremamente complesso il quadro d’indagine, richiedendo il rigoroso controllo di tutti i parametri necessari allo sviluppo della classe di microrganismi più adatta alla degradazione degli inquinanti presenti nel sito. Spesso, però, tutto questo non è sufficiente per ottimizzare la velocità con cui i microrganismi metabolizzano gli inquinanti; si può allora procedere iniettando nel terreno i nutrienti adatti alla stimolazione dell’attività microbica, come azoto, fosforo, carbonio in svariate forme (sali d’ammonio, fosfati, metano ad esempio), oppure aggiungere direttamente nel terreno microrganismi esogeni all’ambiente per stimolare i processi di biodegradazione, precedentemente selezionati da popolazioni già presenti nel sito; si parla allora di biostimolazione nel primo caso e di bioaugmentation nel secondo. Purtroppo l’utilizzo di questa tecnologia (nonostante sia ormai consolidata per molte tipologie di inquinanti organici) può avere due tipi di svantaggi: i tempi (solitamente lunghi, di solito anni) e i costi (il più delle volte alti); i vantaggi invece sono rappresentati dal fatto che si può trattare il suolo in situ, che l’impatto ambientale dell’utilizzo di tale tecnologia è pressocchè nullo, che la strumentazione necessaria è facilmente reperibile in commercio e l’alta efficacia di rimozione degli inquinanti (confrontata con le altre tecniche). Un esempio tipico dell’applicazione di questa tecnologia di bonifica è rappresentato dal MTBE (Metil-TerzButil-Etere), utilizzato da molti anni come antidetonante nella benzina; il problema principale di questa sostanza è la sua alta solubilità in acqua (se confrontata con quella dei prodotti petroliferi); inoltre la sua struttura ramificata rappresenta un ostacolo alla degradazione batterica. Questo ostacolo è stato in alcuni casi ed in parte superato iniettando direttamente ossigeno (sotto forma di perossidi) nella zona contaminata, per aumentare l’ossigeno disciolto nella falda sotterranea ed aumentare così l’efficacia della biodegradazione.

Personalmente ritengo la bioremediation un metodo molto efficace per bonificare un sito inquinato, se confrontato con metodologie più economiche e “spicce” (come l’escavazione e il successivo conferimento in discarica), perchè le sostanze inquinanti vengono trasformate dall’azione dei microrganismi o in biomassa oppure in sostanze più semplici molto meno pericolose (come ad esempio anidride carbonica o ammoniaca) che possono essere allontanate dal sito e non insistere più nella falda acquifera sottostante.

FONTI:

Tunesi, Napoleoni  “Tecnologie di bonifica dei siti inquinati” , Il Sole 24 Ore, 2003

Mendola, Morra  “Bonifica dei siti inquinati” , Dei 2010

Giudice, Rosso, Comino  “Idrocarburi nelle acque sotterranee: rimozione mediante attività sperimentali di bioremediation” , XV congresso della Società Italiana di Ecologia, Torino 2005

 

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